Sono
nato a Milano la mattina del 3 gennaio 1956. Nevicava
di brutto già dalla notte prima. Non
che mi ricordi, me l’ha raccontato mio padre.
Dice che, nell’ansia e la fretta di portare in
tempo mia madre in clinica, per poco non ci capottavamo
tutti (e tre). L’ho perdonato: sono totalmente
incapace di montare le catene, come lui.
A partire dall’età di sette anni, mi misi
in testa che da grande avrei fatto l’attore.
Questo me lo ricordo bene anch’io. Capivo di esserci
portato, perché sapevo spesso cavarmi d’impaccio
recitando. Il mio cavallo di battaglia era la finta
emicrania per saltare gli allenamenti di nuoto (ho fatto
nuoto per otto anni e il mio allenatore mi massacrava
per il mio scarso rendimento nella rana, che cavolo
gli importasse non so, nelle gare di dorso
prendevo le medaglie, ma lui niente, sei sotto i tempi!
devi migliorare la rana! gli sportivi sono fatti così).
Nessuno in famiglia si intendeva di recitazione, se
si esclude la mia geniale nonna Giulietta che rendeva tutto
un teatro e, per conseguenza, la vita di mio nonno Maurizio
tutto un inferno. Insomma, ho dovuto arrangiarmi da
solo. A vent’anni ho cominciato a cercare la strada.
Mica facile. Provini, audizioni, foto di qua e di là,
attese, promesse, pochi spiragli, tanti chilometri a
vuoto. Come diceva il mio amico Bruno Olivieri, al tempo
attore in cerca di fortuna come me: “molto
movimento, nessuna direzione”. Confesso
che, quando mi capitava di leggere qualche dolente intervista
a certi figli d’arte condannati a combattere col
fantasma dei loro padri, mi incazzavo parecchio. Ma
proprio con Bruno e altri coraggiosi colleghi trovammo
il modo di mettere in piedi una Compagnia, poi diventata
Cooperativa, il Teatro degli Eguali.
Il nome scelto era orgogliosamente programmatico e posso
dire che, pur nelle tante difficoltà, riuscimmo
a tener fede a un progetto ideologicamente limpido:
dedicarsi al mestiere dell’attore, con la convinzione
che il teatro potesse essere utile anche agli altri
e non soltanto al nostro individuale narcisismo.
In seguito, mi capitò la fortuna di lavorare
accanto ad artisti che furono decisivi per la mia formazione:
Antonio Salines, attore e regista intelligente
e generoso; gli attori della splendida compagnia del
Teatro dell’Elfo; l’indimenticabile Franco
Parenti, al quale, per quasi tre anni, sera dopo sera,
ho rubato tutto il rubabile. Era un tipo brusco e severo,
Franco. Ma mi spronava con passione
a migliorarmi. I suoi metodi con me furono sempre all’insegna
dell’insulto amoroso: una sera, nel suo camerino
al Teatro La Pergola di Firenze, sintetizzò così
il suo pensiero sullo stato della mia arte: “Non
sei male, ma per ora, più che recitare, tu fai
rumore”. Capii più avanti che, nel suo
linguaggio arcigno, queste parole equivalevano a un
attestato di stima.
In molti, nell’ambiente, parlavano degli alti
e bassi, a volte improvvisi e imprevedibili, di cui
la carriera dell’attore è disseminata.
Ascoltavo indifferente, quasi con fastidio, parole che
mi parevano dettate più che altro da frustrazione,
da quella deprecabile vocazione al lamento, piuttosto
diffusa fra i creativi. In fondo – pensavo –
io ne sono fuori, sono un giovane attore in ascesa,
ogni anno una scrittura sempre più importante,
che mi potrà mai capitare? E invece, proprio
all’improvviso e senza apparente spiegazione,
il vuoto. Prima uno spettacolo già
pronto che salta, poi l’esclusione da un progetto
per far posto a un altro (un figlio d’arte!) e
via con una serie di vedremo, le faremo sapere,
magari la prossima volta, tecnicamente una serie incalcolabile
di sfighe. E intanto mi ero sposato e avevamo avuto
una dolcissima bambina. La spiavo nel buio della sua
stanzetta dopo averla fatta faticosamente addormentare
e pensavo: “Ma a questa che le racconto quando
smetteranno di piacerle le fiabe? Di un ragazzo che
voleva fare l’attore e che ora gestisce un
autolavaggio?” (Un autolavaggio?
Sì, l’immaginario di un attore in crisi
è sempre tragicomico).
Bene, tagliamo corto su questa lacrimevole vicenda.
Negli anni a seguire, grazie a qualche buona nuova
idea, parecchia intraprendenza e una
certa dose di fortuna sono riuscito a riprendere quota.
Ho cercato di puntare su di me, ho cominciato a scrivere
spettacoli e a inventarmi personaggi,
senza aspettare passivamente che fossero altri a propormi
una parte (anche perché non mi arrivavano proposte
da nessuna parte).
“Vedrai, fra qualche anno ti farai un
nome” mi dicevano fiduciosi gli amici
e i parenti che affollavano – solo loro –
il mio one man show al Derby di Milano. Anticipando
tutti, decisi di farmelo da solo, il nome. In un pomeriggio
di novembre del 1987, a pochi giorni dal mio debutto
allo Zelig, voluto fortemente dal mio amico Giancarlo
Bozzo, caddi preda di un delirio anagrafico
creativo: decine di nomi su un foglio, altrettanti cognomi
su un altro, semplici, astrusi, ridicoli, onomatopeici.
Per ore a cercare l’incastro giusto e infine,
stremato e privo di qualsiasi lucidità, ho scelto.
Gioele Dix. Ricordo perfettamente il
mio pensiero definitivo: non funzionerà mai.