Finalmente si comincia! Il 20 giugno debuttiamo al Festival di Asti con “Se potessi mangiare un’idea”. È il compiersi di un piccolo grande sogno. Un atto d’amore e di riconoscenza verso un artista che ho avuto da sempre nel cuore. Non temo la retorica, perché Giorgio Gaber per me è stato molto più di un cantante famoso o di un uomo di teatro da ammirare. Io sono cresciuto come persona - e successivamente come attore – anche grazie alla sua benefica influenza. Non ho mai avuto il coraggio di dirglielo, sebbene il tempo mi abbia concesso il privilegio di incontrarlo più di una volta. Ricordo ancora con esattezza la prima: fu al bancone del bar di un albergo di Mestre, a metà degli anni novanta. Erano le due del pomeriggio ed entrambi eravamo scesi per bere un caffé, ancora un po’ stropicciati dal tipico sonno lungo dei teatranti in tournee. Per me fu un’emozione indicibile ritrovarmi a chiacchierare del nostro comune mestiere con colui che avevo più di tutti venerato e applaudito da adolescente e aspirante attore. Perché questa è la verità: Gaber mi aprì letteralmente il cervello quando ero poco più che quindicenne. Ne fui folgorato vedendolo a teatro in “Dialogo fra un impegnato e un non so”. Ero appollaiato in galleria, tutta la serata in pizzo dietro una colonna con il collo obliquo, in un delirio di folla che già sapeva a memoria gran parte dei suoi monologhi e delle sue canzoni. Tanto che pensai quello che ognuno pensa quando assiste per caso a un fenomeno strabiliante insieme a gente che pare non stupirsene affatto: “Ma io dove cavolo sono stato finora?”. Da quel momento, per anni, non ho perso un suo spettacolo, l’uscita di un suo disco. E lo cantavo con la chitarra fra amici e lo imitavo perfettamente nelle intonazioni, nei gesti, nelle pause. Mica ero il solo, eravamo una tribù, i gaberiani, documentati, affezionati, meticolosi e perciò anche critici. Gaber lo sapeva e credo ne fosse ben felice, ma non solo per vanità. Certo, aveva il suo possente ego, come tutti gli artisti. Eppure sono convinto che la soddisfazione maggiore la provasse nel ritrovare parte di se stesso proprio nel suo pubblico, che per l’appunto gli somigliava: stessa sensibilità, stesso spirito irridente, stesso bisogno di sognare, stessa indomita necessità di andare a fondo, di capire il proprio mondo interiore e l’altrui mondo esteriore, senza censure o paure di fronte alla complessità. A me piacque da subito il suo modo generoso, fisicamente dispendioso di stare in scena. Gaber era corpo che pensa, era cervello che si agita e suda. E anche grazie alle decine volte in cui assistetti alle sue performance, in cui studiai le sue posture, in cui metabolizzai i suoi appoggi comici o le sue slittate nel tragico puro, sono riuscito nel tempo a dare senso e forma alla mia personale attitudine al palcoscenico. In poche parole, gli sono debitore, come lo siamo tutti verso coloro che lungo la strada, senza neppure saperlo, ci offrono una chiave per approfondire la nostra consapevolezza.
Poi, quasi all’improvviso, una notizia sussurrata nell’ambiente a mezza bocca, con pudore e rispetto: Gaber è malato. L’assoluta necessità di non pensarci, la tentazione di non crederci, il sospetto di doversene fare una ragione. Al funerale ero muto e smarrito. Ma la vita va avanti, quante volte pronuncerai anche tu questa fastidiosa banalità, come quando è morto il nonno, come quando è morto Renzo, come quando… E nasce la Fondazione Gaber, voluta e sostenuta con eccellente bravura e impegno dai suoi cari, i parenti stretti, gli amici, gli organizzatori, i preziosi collaboratori storici. Si fa un Festival a Viareggio, si fanno celebrazioni non formali, convegni, concerti, si fa “Milano per Gaber”. Mi ritrovo con naturalezza fra coloro che sentono il bisogno di riproporre Gaber, soprattutto per farlo conoscere a chi per ragioni di età non ne sa nulla o quasi. Eccomi tornato al punto di partenza: finalmente si comincia!
“Se potessi mangiare un’idea” è pronto e quest’estate girerà per qualche piazza selezionata. D’accordo con la Fondazione Gaber che lo produce, abbiamo scelto bei teatri all’aperto, festival di prestigio, rassegne di qualità. Un assaggio, un sostanzioso assaggio, poi si vedrà. Per me sarà un piacere speciale cantare alcune delle sue canzoni, quelle che ho amato di più, recitare qualche suo monologo comico e raccontare con le mie parole una predilezione artistica che ha radici lontane. Con gioia, ridendoci sopra, senza malinconie. Prima di partire, mando un grazie affettuoso a Dalia, a Paolo, a Gianfranco, a Dolores e a tutti gli amici della Fondazione (di cui sono socio onorario, per cui mi ringrazio pure un po’). E aggiungo il mio attestato di stima ai due musicisti che saranno miei complici nel tour: il maestro Silvano Belfiore alle tastiere e il maestro Savino Cesario alle chitarre. Un paio di adorabili filibustieri di grande talento.
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