La tragedia in Abruzzo mi ha indotto al silenzio per parecchi giorni. Tanti pensieri mi sono passati per la testa, ma il dolore l’ha fatta da assoluto padrone. So bene il perché. Nel maggio del 1976 ero militare in Friuli e non ho dimenticato nulla della sofferenza terribile che - mio malgrado – ho condiviso con la nobile, coraggiosa e sfortunata gente di quelle parti. Il terremoto lascia segni indelebili, azzera ogni cosa alla radice, soprattutto il desiderio di chiacchiere. Eppure, dopo le giornate dello strazio, dello stupore, della paura, dell’energia nervosa che rende solidali e iperattivi, la rabbia prende il sopravvento. Giunge il momento nel quale ognuno cerca di farsene una ragione, è normale. C’è chi tira in ballo la volontà di Dio, ma non è il mio caso. Credo fermamente in Lui, ma ho sempre rifiutato l’idea che possa intervenire indirizzando il corso degli eventi che ci riguardano, grandi o piccoli che siano. E c’è chi invece si concentra sulle responsabilità umane, ed è questo il mio caso. Ecco allora che i giri di parole risultano inadatti, irritanti e persino colpevoli. Possibile che in un Paese ad altissimo rischio sismico le case siano costruite senza criterio e senza rigidi controlli? Che i cittadini non siano attrezzati, preparati, allenati all’emergenza? Che non esista una coscienza civile adeguata alla situazione? Lo so, non sono per niente originale, pongo interrogativi rituali, lancio le solite accuse standard, e poi scrollo la testa e polemizzo, come tutti. Ma soprattutto mi convinco che sarò capace di impedire che questo sfracello accada ancora. E intanto sottoscrivo, solidarizzo, mando danaro e vestiti, metto sul piatto tanto, tantissimo cuore. Ma cervello quasi niente. Sono orgogliosamente italiano, ma in questi momenti non mi piaccio, non mi vado giù, non mi sopporto. E voi?
Foto: Remo Remotti, L’albero della vita (1993)